Memoria è un romanzo, pubblicato da Robin edizioni, che parla di relazioni, d’amicizia e d’amore, di crescita, di lontananza. É un romanzo che parla di vita. Abbiamo avuto la possibilità di incontrare l’autrice per voi; ecco cosa ci ha raccontato Silvia D’Oria.
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Ciao Silvia, grazie per aver accettato di essere ospite del nostro Magazine. Memoria è il tuo romanzo d’esordio. Racconta di Cristoforo, un ragazzo come tanti, che si trasferisce da un piccolo paese a una grande città, con in tasca il sogno di diventare attore, e qui trova l’amore. Come è nata questa storia? È totalmente frutto di invenzione oppure hai preso spunto da una storia vera?
Più che il trasferimento nella grande città è l’amore che vivrà lì il perno della storia. Lo spunto è un po’ autobiografico – come sempre, non c’è storia che non parli dello scrittore che la racconta. Qualche anno fa è finita (o fallita) una storia nella quale io e la mia compagna dell’epoca avevamo investito anni ed energie. Qualcosa di molto classico e già visto, niente di speciale: a un certo punto ci siamo svegliate e non ci piacevamo più. Il problema è che non ci piacevamo più da tanto tempo. Abbiamo avuto la lucidità di lasciar andare e ricominciare in modo molto più sano, con persone diverse. Nel primo periodo dopo la rottura ho iniziato a rimuginare su tutto quello che era successo nei quasi dieci anni passati assieme, ogni lite, ogni bacio, tutto insomma. Ho iniziato a ricordare però qualcos’altro: io non ne avevo coscienza sul momento ma ci sono state molte volte in cui abbiamo assunto reciproci atteggiamenti tossici, morbosi, molto distanti dalla normalità di una relazione che funziona. Piccole cose, se prese singolarmente, che però ci hanno consumato nel profondo se messe insieme. Il punto è che io non ho mai pensato di poter essere una persona tossica, di poter fare certe cose. Ecco la storia: ognuno di noi, posto in certe circostanze, se non sa controllarsi, è in grado di fare qualunque cosa.
È chiaro, Memoria non è la mia storia, ma credo che avrebbe potuto esserlo se io e la mia ex compagna non avessimo avuto la lucidità di cercare la felicità altrove. I protagonisti del libro prendono tutte le decisioni sbagliate – come molte coppie infelici che tutti noi conosciamo – perché accecati da quest’idea dell’amore che salva. Non è l’amore a salvare, è la capacità di cercare le persone giuste e lasciar andare le altre. L’amore capita, non si merita, e se a un certo punto non capita più è meglio tenersi stretti i ricordi anziché cercare di portarsi dietro il cadavere di qualcosa che ormai non c’è più. Letteralmente, alle volte.
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In Memoria c’è un forte contrasto tra la provincia e la città, tra periferie e centro. Quando Cristoforo scende per la prima volta dal treno e si trova in questa grande città, che tu non nomini mai, ma che si può facilmente intuire, si sente come trasportato sulla luna. Quali sono secondo te le principali differenze tra la vita in un piccolo paesino e in una grande metropoli? Quando si nasce in un luogo privo di futuro, è può coraggioso rimanere o andare via?
Realizzi di essere piccolo piccolo rispetto a tutto il resto del mondo e un po’ ti ridimensioni. Devi, per riuscire ad avere un’idea più matura, più adulta di te e del resto del mondo. L’arroganza si cura anche così.
Non posso rispondere a questa domanda parlando per tutti però posso riportare la mia esperienza di 19enne che si trasferisce da Corato, un paesino della provincia di Bari, a Milano – un bello stacco, in effetti.
L’unica differenza reale fra la vita in provincia e quella in città è la scelta su come raccontare la propria storia: in provincia tutti conoscono tutti, da sempre, sanno di chi sei figlio – da me non a caso si dice a chi appartieni – cos’hai fatto nella vita, chi frequenti; in provincia se sbagli una volta sei segnato a vita, se lo ricorderanno sempre tutti, è un po’ come se fossero gli altri a raccontare la tua storia. In città è diverso, ti perdi nella folla, puoi essere chiunque e puoi non essere visto, in qualche modo non appartieni a nessuno. Meglio: appartieni solo a te stesso.
Non credo invece che si possa parlare di coraggio: io ho deciso di andar via dalla Puglia, vengo da una zona privilegiata, una delle più agiate del sud Italia che comunque non può competere con il nord del paese – quindi sì, un luogo privo di futuro per certi versi. Ho deciso di andar via perché volevo e ne avevo bisogno per trovare la mia storia, raccontarla da me. Non ho avuto più coraggio di altri, anzi. Credo che il coraggio non stia nell’incaponirsi a scegliere un luogo o una professione o una persona anziché un’altra, al più il coraggio sta nel capire qual è la strada più adatta a noi e seguirla.
Trovo che il coraggio stia nel trovare il proprio posto nel mondo in un certo periodo della vita, il luogo adatto a sé. Liberiamoci un po’ da quest’idea che la casa siano dei luoghi fisici: casa mia, per esempio, è Corato dov’è la mia famiglia, i miei amici del liceo; casa mia è Milano, dove ho studiato e lavorato, dove sono i miei amici dell’età adulta. Casa mia adesso è Torino, dove vivo e lavoro e dov’è la mia ragazza attuale. Casa mia è ovunque la persona che sono coincide con la persona che voglio essere.
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Cristoforo può permettersi di trasferirsi anche perché viene ospitato dall’amico Vittorio, un ragazzo benestante, che studia giurisprudenza e che, naturalmente, frequenta persone con il suo stesso status sociale. Cristoforo, per cercare di integrarsi in questa nuova compagnia, inizia a leggere, ad informarsi. Acquisisce sempre maggiore consapevolezza della propria condizione fino ad arrivare a pensare che qualcuno gli ha rubato il futuro. Chi è il colpevole di questo furto di futuro secondo te?
Quello che ho messo in scena in Memoria è uno scontro generazionale latente – nel senso che non è palesato in primo piano, è sottotraccia e ha voce attraverso determinati personaggi che ho scelto come una sorta di coscienza generazionale. Per esempio, c’è una frase di Vittorio nel libro: “non è più povero contro ricco ma figlio contro padre”.
Non so chi sia il colpevole, francamente, non credo ce ne sia uno solo perlomeno. So solo che questo scontro ha polarizzato la mia generazione su due posizioni opposte dividendoci in piccoli gruppi che non contano niente: da una parte quelli incazzati – non arrabbiati, no no, quelli proprio incazzati che metterebbero tutto a ferro e fuoco -, e quelli che sono completamente disinteressati, quelli che credono che mai niente cambierà e quindi tanto vale stare fermi e immobili. Ripeto: non so chi sia il colpevole e neppure mi interessa. Quello che mi preme è trovare il modo per rendere le varie solitudini della mia generazione una voce sola, tutti insieme siamo molto più forti, molto meno soli. Però per farlo dobbiamo almeno avere la consapevolezza di quello che sta accadendo, di ciò che stiamo vivendo e questo è possibile farlo solo leggendo, imparando, prendendo contatto col mondo. Un po’ come fa Cristoforo, solo con un po’ più di cognizione di causa.
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La storia raccontata in Memoria è tutta narrata in prima persona, attraverso un punto di vista maschile, quello di Cristoforo. A volte sfocia quasi in una visione maschilista; Cristoforo fa battute fastidiose senza rendersene conto, non si fida delle donne al volante, pensa che solo le femmine possano innamorarsi a prima vista.
A volte sfocia decisamente in una visione maschilista, eliminerei il quasi. È un io narrante piuttosto difficile, per me è stato molto complesso entrare in quella mentalità e lavorarla. All’inizio non volevo narrare questa storia in questo modo, avevo scelto un altro punto di vista ma poi ho realizzato che era lui la storia, la sua visione del mondo. Continuo a dirlo: per risolvere un problema è necessario conoscerlo, scandagliarlo, scoprirne le complessità, non fare finta di niente.
Credo che esistano due tipi di scrittori: quelli che scrivono perché sono convinti di conoscere la verità e vogliono dirla al mondo – quando li leggi sembra sempre che alla fine delle loro frasi ci sia un enorme punto esclamativo; e poi ci sono quelli che scrivono perché non sanno le cose, scrivono perché vogliono osservare la materia umana da tutte le prospettive, come se alla fine di ogni loro frase ci fosse sempre un punto interrogativo. Ecco, io penso di far parte della seconda categoria, scrivo perché ho delle domande che mi ossessionano e ho bisogno di costruire delle storie per capirne di più. E mi piace da morire porre sempre delle domande a chi legge, porlo nella posizione di guardare l’argomento da un’angolazione diversa – da questo punto di vista il mio esempio massimo è Philip Roth che termina Pastorale Americana letteralmente con un punto di domanda: della serie adesso rispondi tu, caro lettore.
Ho scelto di rendere Cristoforo il centro della mia storia perché è un uomo, maschio, etero, cisgender, bianco, occidentale; ha quasi tutti i privilegi che io non ho. La mia domanda era: come pensa una persona così, quali sono le difficoltà che incontra, quali sono le pressioni che riceve e come reagisce a queste pressioni sbagliando su tutta la linea? Per esempio, da maschilista, come reagisce nel momento in cui è costretto a dipendere economicamente dalla sua compagna? A quali conseguenze arriva quando pensa che questo non sia “rispettabile”?
Non è un mostro, forse, è solo un personaggio, un essere umano a cui sono state date delle regole che non può rispettare. Perché la vita che si trova a vivere, come tutti noi, è più complessa di come gli è stato detto ma lui non ha gli strumenti per interpretarla in modo diverso.
Se c’è un cattivo in questa storia – un cattivo vero – è la mancanza di educazione sentimentale che tutti noi siamo costretti a vivere e subire. È quello il cattivo delle nostre vite come di tutti i personaggi di questa storia.
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Cristoforo si innamora di Stefania, una bellissima ragazza, dal carattere però glaciale, meschino, pronta a ferire gli altri. Fra i due si instaura una relazione tossica. Cris dipende totalmente da lei, dal punto di vista economico e affettivo. Come si esce da un amore malato?
Questa è la domanda delle domande! Penso che se avessimo la risposta potremmo curare ogni tipo di dipendenza. Non so rispondere alla domanda su come uscire dalla dinamica tossica di un amore malato come quello di Cristoforo e Stefania; piuttosto mi interessa capire cosa porta due persone a stringersi così tanto da soffocare e non sapere più staccarsene.
Per costruire la storia mi ha aiutato come sempre la letteratura. Iniziando dal classico Heathcliff di Cime Tempestose che riesce solo in morte a stringere la sua Catherine passando per il mai abbastanza citato L’età dell’innocenza di Edith Wharton con la storia d’amore mai consumata davvero fra Ellen Olenska e Newland Archer arrivando poi a Fuochi di Marguerite Yourcenar.
Le prime due sono storie d’amore – soprattutto la prima – che bruciano le anime degli amanti senza dare niente in cambio: tutti noi siamo cresciuti pensando che l’amore ci debba distruggere per essere vero, siamo cresciuti pensando che solo gli amori difficili e insoddisfatti debbano avere la dignità di essere vissuti. E invece quelli sono solo amori falliti e nessuno ce l’ha mai detto. Per quanto mi riguarda alle volte penso che abbia fatto più danni Emily Bronte del primo ragazzo che mi ha lasciata alle medie: alla fine l’uno deriva dall’altra.
Yourcenar mi ha dato la chiave di volta: nella prefazione a Fuochi (2018, Bompiani, trad. Maria Luisa Spaziani), scrive che l’amore, privo di una passione, di una somiglianza comune, di una comunanza di valori, non è altro che “un vano gioco di specchi o una triste mania”. Questo mi ha aperto gli occhi: Cristoforo e Stefania, oltre all’invidia, oltre al sentirsi fuori luogo, oltre all’odio per gli altri non hanno niente che li renda l’uno la metà dell’altra; l’unica cosa che li tiene insieme è ciò che non sono. Però entrambi si incaponiscono, non si rendono conto che ciò che li rende vicini è solo il ricordo del momento in cui si fingevano due persone diverse per piacere l’uno all’altra.
In fin dei conti non penso ci sia un modo semplice e indolore di uscire da un amore malato e tossico come questo, piuttosto, forse, è necessario capire che non sempre ciò che amiamo ci fa vivere (o sopravvivere). Fra “gli opposti si attraggono” e “chi si somiglia si piglia” Marguerite Yourcenar e io concordiamo nel dire che è più sana la seconda – anche se credo che lei lo scriva meglio di me.
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Infine, so che prima di intraprendere il percorso di scrittrice, nella vita facevi altro. Di cosa ti occupavi? Come è nata in te la necessità della scrittura? Inoltre, hai frequentato il master di Storytelling presso la Scuola Holden di Torino. Pensi che la scrittura sia frutto di una spinta totalmente naturale e difficilmente ammaestrabile oppure, come tutte le arti, può essere appresa?
Ero incastrata in una vita così diversa che mi sembra che sia stata un’altra a viverla. Mi sono laureata in Giurisprudenza in Bocconi e poi ho lavorato per qualche anno in una società di consulenza per banche e intermediari finanziari. Ecco, tutto questo è stato l’errore migliore che potessi fare: non faceva assolutamente per me, questo è ovvio, ma le storie si scrivono proprio così, con le contaminazioni, prendendo ovunque ci sia qualcosa di interessante, senza porsi paletti mentali. E credetemi, in consulenza quanto in Bocconi ho incontrato una serie di personaggi letterari che non scorderò più. C’è una persona a cui ho promesso un libro sui miei anni in consulenza: chissà che prima o poi arrivi.
In realtà non ho mai avuto la necessità di scrivere ma di raccontare storie sì: vengo da una famiglia in cui sono sempre stata la più piccola, sembra una sciocchezza ma ho due sorelle molto più grandi di me, adolescenti che quando avevo pochi anni di certo non volevano giocare con me (avevano ragione loro, chiaro). E quindi lì cosa fai? Inventi storie pur di giocare. Credo sia nato tutto lì, dalla necessità di non sentirsi soli. Le storie sono fatte per questo, credo, per non sentirsi soli al mondo. L’importante per me erano le storie, il mezzo per narrarle (cioè i romanzi) è arrivato solo dopo, col tempo, all’inizio non sapevo che sarebbe stato così.
Poi ho avuto la possibilità di cambiare vita, ho firmato un contratto per pubblicare il mio primo libro, sono stata ammessa alla Scuola Holden. Ho deciso di mollare tutto, lasciare un lavoro sicuro e una città che conoscevo come casa, Milano, per lanciarmi completamente nel vuoto. Alle volte ci ripenso e credo sia stato folle ma alla fine ho recuperato tutti gli anni che avevo perso fingendomi un’altra persona.
La scrittura è esattamente come tutte le arti: può essere appresa ma mai governata completamente. È un mestiere, si impara, non è tanto diverso dalla falegnameria o dall’economia. Però non è una scienza dura, c’è sempre qualcosa che non potremo mai governare. È mistico, è magico, è quello che rende le storie dei riti collettivi in grado di far cambiare il nostro modo di vedere un mondo. È quella parte ingovernabile che rende per esempio un film di Ken Loach molto più efficace di un manuale di scienze politiche; è quello che rende Un amore di Dino Buzzati più profondo di un libro di Eric Berne: perché le storie ci commuovono, ci emozionano e restano impresse dentro di noi. Per questo per capire le dinamiche familiari funziona forse molto di più leggere Le Correzioni di Jonathan Franzen di un manuale di psicologia.
Le storie vanno studiate, certo, ma resteranno sempre il più grande mistero umano, esattamente come la vita, esattamente come la materia che trattiamo: le persone.
Grazie mille Silvia per aver condiviso con noi il tuo romanzo e parte della tua vita, non scorderemo facilmente le tue riflessioni sulle relazioni e in generale sulla vita, e in bocca al lupo per l’appuntamento di domani, alle 17.00, al Salone del Libro di Torino!