Non è un segreto che un fenomeno globale chiamato fast fashion, guidato dalla psiche di base dei consumatori che chiedono abbigliamento/moda a prezzi accessibili, sfortunatamente ha un lato oscuro che molto spesso passa inosservato: una realtà brutale fatta di sfruttamento e soprattutto di greenwashing.
Fast Fashion
Il fast fashion (la produzione e vendita di capi di abbigliamento poco costosi, pensati per essere indossati poche volte) ha rivoluzionato l’industria della moda rendendo accessibili ai consumatori di tutto il mondo capi di abbigliamento che seguono le ultime tendenze e che costano pochissimi euro. Ma dietro la convenienza c”è un significativo contributo al degrado ambientale: la produzione di fast fashion comporta un elevato consumo di energia e la produzione di rifiuti.
I materiali utilizzati per realizzare questi indumenti, come poliestere e nylon, sono sintetici e non biodegradabili, il che significa che impiegano centinaia di anni per decomporsi. Il fast fashion è anche caratterizzato da un alto tasso di sovrapproduzione, che porta a enormi quantità di scorte invendute che finiscono nelle discariche.
Per comprendere l’impatto del fast fashion sull’ambiente è fondamentale considerare le diverse fasi del ciclo di vita di una maglia o di un paio di pantaloni. Al primo posto c’è la produzione: il fast fashion è sinonimo di un alto tasso di produzione, il che significa che sono necessarie enormi quantità di energia e risorse per produrre vestiti. Il processo produttivo prevede l’utilizzo di sostanze chimiche dannose, come coloranti e candeggina, che inquinano l’ambiente. La produzione di tessuti sintetici, come poliestere e nylon, comporta anche l’utilizzo di risorse non rinnovabili (come il petrolio).
Secondo punto: i trasporti perché anche la movimentazione dei prodotti fast fashion dai Paesi in cui vengono prodotti fino ai negozi al dettaglio contribuisce all’impatto ambientale. Il settore dei trasporti incide in modo prepotente sulle emissioni di gas serra e l’elevata domanda di prodotti fast fashion implica la necessità di più camion, navi e aerei per trasportarli. Punto numero tre: l’utilizzo. Indossare fast fashion ha un impatto sull’ambiente. I tessuti sintetici utilizzati per realizzare questi indumenti rilasciano microfibre nei corsi d’acqua ogni volta che vengono lavati e queste microfibre sono dannose per la vita marina e possono finire (finiscono) nella nostra catena alimentare. Lo smaltimento: lo smaltimento dei prodotti fast fashion è una delle sfide più ardue che il settore deve affrontare. L’alto tasso di produzione significa che ci sono molte scorte invendute che finiscono nelle discariche. Questi indumenti impiegano centinaia di anni per decomporsi e, nel frattempo, rilasciano sostanze chimiche tossiche nell’ambiente.
E allora il Greenwashing?
Non siamo le prime a scrivere di come funzionano l’industria della moda e il fast fashion. La crescente consapevolezza rispetto all’ambiente ha imposto a molti attori l’adozione di strategie di marketing che in qualche modo lusingassero le persone più attente. Ma non tutte le aziende sono così ecologiche come vogliono suggerire le loro pubblicità. Ed eccoci: greenwashing, è un termine coniato negli anni Ottanta che si riferisce alla pratica delle aziende di indurre i consumatori a credere che i loro prodotti siano rispettosi dell’ambiente (senza effettivamente implementare alcun cambiamento nel loro processo di produzione).
Nel settore del fast fashion il greenwashing è particolarmente diffuso: le aziende cercano di trarre vantaggio dalla crescente domanda di moda sostenibile utilizzando strategie di marketing ingannevoli. Per esempio con didascalie fuorvianti e parole d’ordine (bio, riciclo, sostenibile): pubblicizzare per esempio prodotti come “realizzati in cotone biologico” ma in realtà solo una piccola percentuale del prodotto è realizzata in cotone biologico e il resto no. Le parole d’ordine ecologiche raccontano i prodotti più sostenibili di quanto non siano in realtà. Un altro modo in cui le aziende di fast fashion si impegnano nel greenwashing è essere meno trasparenti riguardo ai loro processi produttivi. Molte aziende dichiarano di essere rispettose dell’ambiente ma non divulgano alcuna informazione sulla loro catena produttiva o sui processi produttivi. Il che rende impossibile la verifica della millantata sostenibilità.
Le false certificazioni: molte aziende di fast fashion utilizzano anche false certificazioni per far sembrare i loro prodotti sostenibili. Per esempio realizzando un logo che per colori e simboli sembra una certificazione di un’organizzazione ambientalista ma in realtà è un logo creato dall’azienda stessa. Naturalmente il greenwashing trova ampio spazio nella pubblicità: molte aziende utilizzano immagini della natura (come boschi, foreste, fattorie) o slogan che suggeriscono che i loro prodotti sono ecologici, anche se non lo sono.
Etica, ambiente e moda
Spesso non pensiamo troppo alla provenienza dei nostri vestiti o a come sono stati realizzati. Ma il lato oscuro della catena di fornitura del fast fashion comprende, oltre all’impatto ambientale, anche la violazione dei diritti umani. Le aziende del fast fashion spesso fanno affidamento sulla manodopera a basso costo di lavoratori pagati pochissimo e che lavorano in condizioni disumane. Molti di questi lavoratori si trovano nei Paesi più pover, Paesi in cui semplicemente le leggi sui diritti dei lavoratori e delle lavoratrici non sono “rigide” né osservate. In alcuni casi, i lavoratori sono costretti a lavorare per diverse ore consecutive in condizioni non sicure, con pause minime o nulle. Il crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013, che ha ucciso oltre 1.100 lavoratori e lavoratrici dell’industria tessile, è un tragico esempio delle violazioni dei diritti umani che possono verificarsi nel settore del fast fashion.
È importante essere consapevoli del lato oscuro della catena di fornitura del fast fashion e cercare di abbracciare la moda sostenibile, anche con un budget limitato o con corpi non conformi. Siamo coscienti del fatto che la moda low cost spesso non offre la stessa varietà di prodotti a seconda della taglia. Ma si può investire in capi di qualità che dureranno più a lungo e di seconda mano: gli indumenti di qualità durano più a lungo e hanno meno probabilità di finire in discarica ed esistono moltissimi mercati di abbigliamento vintage (anche di lusso). I negozi dell’usato anche online sono ottimi posti per acquistare abiti usati e dare nuova vita a capi che altrimenti finirebbero in discarica.
L’idea resta quella di cercare, quando possibile, fibre naturali e brand le cui catene produttive sono realmente sostenibili: le fibre naturali come il cotone e il lino sono più sostenibili di quelle sintetiche come il poliestere. Sono biodegradabili, richiedono meno acqua ed energia per essere prodotti e sono più comodi da indossare. Per far durare più a lungo i vestiti a volte basta seguire le istruzioni di lavaggio e di cura come usare detersivi per bucato ecologici, rammendare i vestiti quando ne hanno bisogno. Guardiamo il quadro da una prospettiva più ampia e non lasciamoci ingannare da un singolo prodotto o iniziativa “green”. Un’azienda che vende un prodotto sostenibile ma utilizza pratiche non etiche contribuisce comunque al danno ambientale.
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